IMPRINTING_EX PORFINA

Abito al sesto piano di un enorme complesso di palazzine incastrato fra i binari della stazione e il fiume Tevere, e per ventiquattro anni il balcone di casa e stato il mio osservatorio sul mondo. Il mio luogo dell’imprinting e ciò che il balcone di casa offre da osservare. Ho sempre pensato che il mio piccolissimo quartiere sconosciuto al mondo ma non abbandonato da Dio fosse un paese all’interno di Roma. Quella familiarità dei gesti e dei movimenti del vicinato così ripetitivi e costanti, mi hanno sempre trasmesso un senso di appartenenza.

Probabilmente ridurre al solo balcone il privilegio della vista è sbagliato, in effetti ho sempre pensato che casa, con la sua significativa altezza rispetto alla strada, fosse come un sorta di fortino/ osservatorio privilegiato per cui se si guarda a destra, a sinistra o di fronte si riconoscono diverse situazioni. E’ un gioco che facevo sempre con mio nonno Tranquillo, ai tempi del militare, artigliere della contraerea e in seguito feticista dei binocoli. Per farmi stare buona e farmi passare il tempo mi faceva girare tutto il perimetro della nostra casa cercando di trovare situazioni divertenti o che destassero curiosità al di fuori del fortino, nessuno avrebbe potuto vederci…

La prima cosa di cui un buon osservatore si rende conto è della struttura di difesa del fortino, tutto il sistema infrastrutturale che protegge il piccolo paese e che è condizione necessaria e sufficiente all’esistenza del paese stesso. I binari della stazione che girano intorno per buona parte del perimetro e le differenze di quota con i quartieri limitrofi ai quali si accede o passando sotto o passando sopra a ponti contribuisce a creare un vero e proprio cerchio intorno all’aggregato di palazzi come fosse un fosso con i coccodrilli e i ponti levatoi. Mi hanno sempre tutti chiesto come riesca a sopportare il rumore dei treni che passano costantemente o come non abbia difficoltà ad attraversare quei ponti di notte, ma questi sono i cancelli; ed i rumori dei treni che passano sono le sentinelle di guardia.

La seconda cosa che un buon osservatore deve fare, ed è fondamentale, è scegliersi i suoi “buchi di vista”, il fortino è infatti circondato da moltissimi altri fortini alti tanto quanto lui se non di più, rigorosamente in mattoncini, gialli, color terra, marroni. Ogni fortino difende se stesso e gli altri. Se i palazzi intorno non fossero stecche di 8 piani, direi quasi che potrebbero essere considerate delle palizzate tra le quali, è normale, bisogna trovare il punto in cui si riesce a vedere al di la, al di fuori. Ce ne sono moltissimi in realtà sia verso il centro che verso la periferia, ma io preferisco quelli verso la periferia perché sono meno statici, più mutevoli nel tempo e più incuriosenti.

Iniziando il tour dalla mia stanza da letto riesco a vedere verso il centro quell’enorme massa bianca del Vittoriano, ogni mattina è quasi una garanzia del fatto che sono ancora viva o che non sto più sognando. Sta li imponente, sempre uguale, autoritaria a indicare l’antichità della nostra città anche se ormai in una fase decadente. Spostando lo sguardo verso destra superando  con la vista il palazzo proprio di fronte al mio, ecco li che si stagliano le banchine della stazione di Trastevere con  l’edificio come “scena frontis”. Questo è un buco di vista su cui inevitabilmente ci si sofferma a lungo per la sua vivacità. Mille personcine formato miniatura salgono e scendono dai treni indaffaratissime, e ogni volta la scena cambia. Puoi individuare il pendolare, lo studente con i mezzi, il viaggiatore senza troppa difficoltà. Persone, cavi elettrici, binari e treni si intrecciano sullo sfondo giallo e statico di una delle più antiche stazioni di Roma. Se si aguzza un po l’occhio si nota la presenza di altri personaggi che da molti più anni di me studiano i viaggiatori, sono le statue della basilica di San Giovanni, fermi sopra la stazione come se dovessero muovere i fili che comandano i movimenti delle persone. I flussi e i movimenti sono ciò che caratterizzano il secondo scenario altrimenti insignificante, devo ammetterlo. Abbandonando la stazione e volgendo l’occhio ancora una volta un po più a destra ecco che si identifica il mio scenario preferito, mille e dico mille gru che sembrano dell’ enormi braccia sulla città, con il quartiere Ostiense e la sua architettura industriale di fondo. Trovo estremamente caratterizzante questo scenario, come detto prima per la sua mutevolezza, le gru infatti cambiano posizione se non ogni giorno quasi, costruendo nuovi palazzi o forse cercando di finire gli stessi palazzi da anni; il senso di instabilità che trasmettono è enorme. I giorni in cui sei più triste ti deprimi pensando che la nostra città sia arretrata e tenuta in una condizione pessima  da tutti i sindaci da “Romolo” a oggi; i giorni in cui sei più sollevato invece apprezzi, forse inconsapevolmente, la presenza di queste enormi braccia costruttrici che aldilà di tutto fanno da arredo dando quel senso di metropoli che la nostra città non avrebbe se non fosse per loro, con la speranza che prima o poi se ne andranno o forse no… Le Gru insieme al gazometro che si staglia altissimo sull’orizzonte costruiscono nell’aria una rete fatta di travi di metallo e bulloni, al di là della quale è possibile vedere. Sono costruzioni che nonostante tutto non disturbano anzi sembrano quasi dei filtri cui vedere attraverso. Al di là ci sono alberi, case, persone, macchine, vita. Sembra quasi di stare all’interno della cappella del Vasari a Napoli, con le sue volte a crociera divise in settori losangati, all’interno delle quali scene floreali e di vita comune sono dipinte; se ti siedi e guardi verso l’altro puoi scegliere la tua scena e iniziare a immaginare. Così si può fare con le strutture di metallo. Immagino sempre che un giorno magari ci si possano attaccare dei volumi dando un nuovo senso ad un’architettura che forse non servirà più come industriale ma abitativa, così come le gru, se dovessero rimanere li e diventare loro stesse palazzi invece che costruirli. Affacciandosi dall’ultimo lato di casa in realtà più che attraverso un buco di vista bisogna guardare a terra. Improvvisamente ci si rende conto delle macchine che spariscono al di sotto della strada attraverso rampe. E’ una cosa che mi ha sempre affascinata. La particolarità della via è che al di sotto della strada si sviluppano almeno quattro piani di parcheggi, uno a livel terreno, gli enormi fortini infatti sono sollevati su pilotis, e tre al di sotto della quota zero. Tra gli alberi ascensori e scale si insinuano nelle viscere della terra e portano a garage che immagino alcuni essere dei semplici depositi per auto altri invece contenitori di veri e propri mondi: cantine, laboratori, sale per suonare, atelier d’ artisti chi lo sa. Sto al sesto piano e immagino quanta vita scorre al di sotto di me.

La compresenza di persone, il movimento, gli strati, l’altezza, le gru, gli scorci, il pattern dei mattoncini, che purtroppo mai leverò dalla testa, il treno, i ponti, l’idea di un mondo che non si vede al di sotto dei miei piedi, mi hanno sempre dato spunti per immaginare storie, inventare giochi di fantasia, perdere tempo mentre fumo la mia sigaretta affacciata di fuori.

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